Imboccando ad ovest Corso Regina Margherita da Porta del Lago, così chiamata per la presenza delle cisterne di raccolta di acqua sorgiva, si prende a sinistra in salita la prima strada, via Biffa, e siamo subito proiettati nel centro storico, che ospita attualmente circa 4500 abitanti, e, seppur significativamente alterato da interventi moderni e spesso incontrollati, restituisce l’immagine urbana del primitivo borgo.
Il nucleo urbano, attestato storicamente in Età normanna già attorno all’anno Mille, era un tempo contenuto da una cinta muraria di Età angioina o proto aragonese, della quale restano poche ma significative tracce. Ma già nel Quattrocento la fisionomia del centro doveva apparire allora simile a quella attuale: racchiuso in un’ogiva, con le linee di delimitazione del sito che possono essere individuate nella tangenziale esterna (Corso Matteotti) e in Corso Regina Margherita.
Tutte le case avevano uno o due piani fuori terra e la distanza fra di loro non era superiore ai quattro metri, per cui le donne, stando in casa a sfaccendare, potevano tranquillamente conversare tra di loro o passarsi, con una canna, degli oggetti da un balcone all’altro.
Le abitazioni avevano una o, al massimo, due stanze. Dentro c’era l’indispensabile per viverci: un lettone, una cassapanca, un tavolo, qualche sedia e qualche sgabello. In cucina i tegami, le pignate, i piatti di legno o di terracotta, le giare per le provviste di acqua e le ceste di paglia appese al muro completavano l’arredamento.
Tutto: pareti esterne, interne, infissi, porte e portoni erano bianche, tinteggiate a calce e senza vetri Infatti la calce era un prodotto facilmente reperibile (si produceva dalla pietra calcarea abbondante in zona) , traspirante , disinfettante.
Se con un po’ di immaginazione, riusciamo ad eliminare inferriate, cancelli, alluminio e tutto ciò che non è imbiancato a calce, ci troveremo in una comunità come si è conservata per secoli. Allora prenderà vita la stradina (chiazza) che era il vero fulcro della vita domestica: era qui che i ragazzini giocavano, che le anziane sferruzzavano a maglia o badavano a far asciugare la conserva di pomodori o le mandorle.
Sempre nella chiazza si celebravano i riti collettivi, per es., nei pomeriggi di maggio l’intera comunità della chiazza si riuniva (occupando sedie, sgabelli, gradini, scalinate) per recitare il Santo Rosario.
In questa atmosfera si sviluppava un profondo senso di solidarietà, che andava dalle manifestazioni più piccole ( “Hai una foglia di alloro ?” “Stammi attenta ai bambini!”) sino a quelle più impegnative.
I legami di vicinato si consolidavano sovente con i rapporti di cumparizia: con il battesimo, la cresima , o testimoni di nozze. Questi vincoli erano, spesso, sentiti al pari di quelli di sangue.
La solidarietà era tanta ma la privacy (concetto ignoto all’epoca) decisamente poca; con il tempo la prima veniva sempre meno, la seconda evolveva in pettegolezzo o gossip; prezzi pagati alla modernità!
Siamo arrivati a “Lu purtone de Giuliane” (Portone di Giuliani).