Museo sull’arte e sulle tradizioni popolari “Michele Capuano”

Il Museo sull’arte e sulle tradizioni popolari dr. Michele Capuano raccoglie le testimonianze sulle tradizioni, arti e mestieri di San Giovanni Rotondo, e offre un quadro incisivo ed efficace delle tradizioni popolari di questa città, costituendo un importante punto di riferimento per la conservazione e la tradizione della memoria storica del territorio.

Il Museo raccoglie gli oggetti della cultura e della tradizione locale. Nell’esposizione gli strumenti di lavoro e gli oggetti di uso quotidiano sono collegati in buona parte con la terminologia dialettale, con il proposito di innestare i vari oggetti in un quadro pienamente storico e sociologico della nostra civiltà e della nostra lingua.

Il museo propone un viaggio emozionante alla scoperta della vita, lungo diversi percorsi e attraverso le eterogenee suggestioni della vita quotidiana, il variare delle stagioni; dello sviluppo dell’agricoltura; dello sviluppo dell’allevamento del bestiame e il fenomeno della transumanza e degli antichi mestieri.

L’organizzazione espositiva si sviluppa in sezioni essenziali ed interessa il più ampio spazio della storia e delle attività dell’uomo.

Una prima sezione sulla vita e la cultura della città: la casa (gli oggetti della camera da letto, gli oggetti e l’architettura della cucina), le tradizioni (oggetti religiosi, giochi e arti casalinghe).

Una seconda sezione comprende gli oggetti che riguardano le arti e i mestieri (gli arnesi delle categorie più varie: il fornaio, il calzolaio, il sarto, il falegname, il muratore, il fabbro, il maniscalco, il carrettiere, il carradore, il bottaio, l’acconciapiatti, l’arrotino, lo stacciaio, l’ombrellaio, ecc.).

Una terza sezione comprende gli oggetti che riguardano la vita e la cultura della terra. Pertanto si ha la possibilità di avere un’informazione completa della vita che si svolge negli ambienti che caratterizzano tutta l’area garganica: la grotta, il pagliaio, la “torre”, la masseria.

Nel mese di giugno si cominciava la mietitura del grano. All'alba i contadini erano già nei campi e, dopo aver legato con lunghe funi gli animali ad un albero per consentirne il pascolo, arrotavano le falci con la cote che tenevano sempre bagnata in un corno appeso alla cintura con dentro dell'acqua. Infilavano quindi i salvadita rudimentali che ciascuno aveva costruito per conto proprio ritagliando opportunamente dei pezzi di canna di un diametro pari a quello delle dita.

Si segnavano la fronte e dopo aver pronunciato ad alta voce "nome di Dio", curvavano le loro schiene e, facendo voti augurali circa la bontà dell'annata, iniziavano il taglio del grano che veniva prima posato per terra, poi legato in covoni ed infine, a sera, ammucchiato in biche. Per la mietitura si utilizzava la falce messoria. Il frumento, tagliato ad un'altezza di 15-20 cm e raccolto in mucchietti, veniva poi riunito in covoni del diametro di circa 30 cm legati con un manipolo dello stesso frumento.

La trebbiatura si svolgeva sull'aia (ampio spazio antistante le masserie). Consisteva nel far girare gli animali sui covoni allo scopo di frantumare le spighe e far fuoriuscire il grano. Molti effettuavano la stessa operazione con il correggiato (strumento formato da due bastoni di legno uniti da una corda che serviva per battere il grano). Seguivano le fasi della separazione della paglia dal grano, della ventilazione e della vagliatura.

Prima dell'avvento della mietitrebbie, il momento della trebbiatura costituiva sempre il momento di festa collettiva. Le macinelle servivano per macinare il grano in casa quando non si poteva andare al mulino.

Per trebbiare delle grandi quantità di grano si faceva ricorso, così come per l’aratura, alla forza animale. Sui covoni ammucchiati nell’aia venivano fatti girare un gran numero di animali e il calpestio dei loro zoccoli faceva uscire i chicchi dalle spighe, oppure una coppia di buoi trascinava sopra le spighe sparse circolarmente nell’aia una pietra di grandi dimensioni percorsa da scanalature nella faccia inferiore, oppure una pesante tavola di legno, costruita con grosse assi e munita nella parte inferiore di guide di ferro dentate e porgenti.

Il superamento di questi metodi tradizionali di mietitura e di trebbiatura cominciò a delinearsi tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo quando lo sviluppo capitalistico dell’agricoltura favorirono la diffusione nelle campagne di macchine per mietere, per falciare e per trebbiare. Esse erano dotate di meccanismi che sostituivano la sperimentata manualità dell’agricoltore, mentre la macchina a vapore forniva la potenza necessaria a metterle in movimento quando la forza motrice animale non era sufficiente. I risultati furono molteplici: aumento della produttività del lavoro, miglioramento della qualità del grano, maggior controllo dei proprietari sul processo produttivo.

Quando il grano era maturo si mietevano i campi con mietitrici trainate da cavalli. La trebbiatura si svolgeva sull’aia; per separare i chicchi, si batteva il grano con un bastone piuttosto lungo, all’estremità del quale era legato con una striscia di cuoio, un altro bastone, più corto e più pesante, che veniva fatto ruotare in aria e ricadere sul mucchio di spighe. Con l’invenzione del motore a scoppio questo lavoro si faceva con l’aiuto della trebbiatrice. Il momento conclusivo della trebbiatura consisteva nel mettere il grano nei sacchi, mentre la paglia veniva accatastata in grandi biche.

Il paese era anticamente illuminato da lumi a petrolio che venivano accesi e spenti da un addetto comunale chiamato lampionaio.

Tutte le case avevano uno o due piani fuori terra e la distanza fra di loro non era superiore ai quattro metri, per cui le donne, stando in casa a sfaccendare, potevano tranquillamente conversare tra di loro o passarsi, con una canna, degli oggetti da un balcone all’altro.

Le abitazioni avevano una o, al massimo, due stanze. Dentro c’era l’indispensabile per viverci: un lettone, una cassapanca, un tavolo, qualche sedia e qualche sgabello. In cucina i tegami, le pignate, i piatti di legno o di terracotta, le giare per le provviste di acqua e le ceste di paglia appese al muro completavano l’arredamento.

Le tenebre venivano appena rischiarate dalla lucerna ad olio, poi dal lume a petrolio e, per chi se lo poteva permettere, da una lampadina elettrica, con contratto UNES a forfait, potenza 15 watt.

Il tempo era scandito dalle campane. Un silenzio rotto dal vociare delle donne, dai giochi dei bambini, dal passaggio di qualche carretto, o dal richiamo dei venditori ambulanti, dell’arrotino, del sanapiatti, del rigattiere.

Quando arrivava l’inverno, ci si riuniva, intorno al braciere a bruciarsi le gambe, i vecchi raccontavano le storie di un passato lontanissimo, della guerra, di briganti e di figure fantastiche, di streghe, di folletti, di spiritelli e di lupi mannari. Quando il fuoco si era consumato si andava a dormire, per riscaldarsi.

L'arte popolare, pur nella sua semplicità, era il mezzo che permetteva alla gente umile di esprimersi e aveva una forte connotazione sentimentale ed emotiva, per cui gli impulsi improvvisi e gli stati d'animo venivano tradotti in linee semplici anche se non privi di una forte carica di lirismo.

L'arte popolare era praticata dal pastore e dal contadino; dall'artigiano e dalla massaia; come anche dal popolano che amava, quasi per istinto, abbellire gli oggetti che servivano al lavoro quotidiano e alla vita domestica.
Basti pensare ai bastoni e ai collari di alcuni animali che il pastore adornava con motivi che ricordavano le sue credenze e il suo ambiente; ai cucchiai, ai mestoli e agli sgabelli di legno intagliato che abbellivano le modeste abitazioni; ai ricami e ai merletti che rappresentavano la principale forma di espressione artistica delle nostre nonne; agli oggetti in rame dalle: forme gradevoli che venivano appesi in bella mostra nelle cucine: alle inferriate, infine, e alle ringhiere in ferro che abbellivano le case patriarcali. Pochi esempi per ricordare come nel passato la gente era incline ad estrinsecare la propria personalità e ricchezza interiore.

IL TAMBURO (Lu tamburrèdde)
E’ il tipico strumento artigianale, costituito da un telaio in legno piegato a cerchio, sul quale viene fissato una pelle di capretto o di agnello opportunamente preparata. Nel telaio vengono ricavati degli incavi nei quali si sistemano dei sonagli metallici di diametro variabile dai tre ai quattro centimetri, ricavati da recipienti metallici o tappi di bottiglie. Lungo il telaio si applicano nastrini colorati, mentre la pelle costituisce il piano battente della mano per la percussione. Nella versione più grande è conosciuto con il nome di Tamborra.

LE CASTAGNOLE
Ricordano spesso le nacchere e si chiamano così perché il miglior legno con cui costruirle è il castagno. La castagnola è composta da due pezzi con una grandezza che varia dai due ai cinque centimetri. Mentre la parte esterna è bombata, quella interna è incavata e funge da cassa sonora. Le due parti vengono legate a coppie, con le facce incavate combacianti e fissate alle dita della mano nella parte esterna di essa, a seconda dell’abilità del suonatore, anche nella parte interna. Le castagnole si distinguevano in maschio e femmina ed erano di diversa grandezza. Il suonatore impugnava la più grande con la mano destra e la più piccola con la sinistra. Ciò provocava un diverso suono, più cupo in quella più grande.

LU SCISCIULE
E’ costituito da due pezzi di legno e viene chiamato anche il violino del povero, perché si suona in maniera simile al noto strumento. I due pezzi hanno una misura che varia dai quaranta ai cinquanta centimetri. Il primo è semplice e non presenta nessuna particolarità: viene tenuto ad un estremo con la mano, mentre l’altro estremo si appoggia sulla spalla. L’altro pezzo è dentellato lungo tutto un lato, mentre sulla parte opposta sono sistemati dei sonagli metallici. Il suono è prodotto dallo scorrere del pezzo con i sonagli su quello appoggiato alla spalla.

LU ZIGHEDE-BÙ
Molto diffuso nell’area meridionale, è per questo molto vario nella costruzione. A volte si usa, come cassa di risonanza, un recipiente di latta o di creta o di legno. Il piano armonico è in pelle di agnello o di capra opportunamente trattata. Al centro viene posta un’asta di legno, in genere canna o pungitopo. A seconda della grandezza dello strumento, il suono viene prodotto sfregando con una o due mani l’asta, dall’alto verso il basso, utilizzando soprattutto i palmi di esse. Il suono sarà più cupo se si avrà cura di bagnare periodicamente la mano con acqua o saliva. Per quelli più grossi ci si aiuta anche con una spugna per lo sfregamento.

L’ARMÒNNECA
E’ un organetto ed ha la caratteristica di possedere pochi bassi, da due a otto per le note diatoniche. E’ uno strumento molto usato in Abruzzo e si è diffuso nel nostro territorio grazie alla Transumanza.

LA RACANADDA
E’ uno strumento di legno, composto essenzialmente da due pezzi incastonati. Il primo, che presenta anche l’impugnatura, termina con una ruota dentata, l’altro fa da piccola cassa di risonanza, con una linguetta, sempre in legno, che viene mossa dalla ruota, emettendo un suono simile al gracchiare delle rane.

La lirica contadinesca era tutta fatta di versi genuini, di invocazioni amorose, spesso grottesche, grossolane, ma non prive di tenere note di gentilezza.

Nella loro lunga solitudine, fra le chiome dei boschi, i pastori, i vaccai, i giumentai cantavano dolci nenie; nelle stalle i contadini intonavano canti, espressione genuina, nella loro lampeggiante brevità, dell’anima, delle usanze e delle abitudini garganiche; le contadine con la veste rialzata sui fianchi e col fazzoletto ripiegato sul capo cantavano canzoni d‘amore, in mezzo ai prati verdi, durante la zappatura, la sarchiatura, la mondatura, la vendemmia e la raccolta delle olive.

Le forme musicali più tradizionali di San Giovanni Rotondo afferiscono a tre tipi di tarantella, che si svolgono in tonalità e registri differenti, una forma di canto libero, sonetto o canto a distesa, in tonalità minore, e un canto alla Capuane, pure a distesa in tonalità maggiore.

La Cerignulane, tarantella di modo maggiore. Gli accordi di La e Mi vengono diteggiati in prima posizione. I bicordi presenti nell’introduzione strumentale sono pizzicati dall’indice, mentre il pollice suona l’ultima corda a vuoto che funge da bordone. La voce attacca in levare sul primo grado con una andamento discendente fino al sesto. Su ritmo essenzialmente ternario della chitarra battente, la voce presenta una figurazione binaria nell’ultimo tempo della battuta.

La Muntanare, tarantella in modo maggiore. Alterna gli accordi di Sol e Re settima. La voce attacca in levare sul settimo grado per portarsi successivamente sulla tonica. La melodia si svolge nell’ambito di una nona minore.

La Cannellèse comprende due forme di tarantella in modo minore. Una forma più semplice, che alterna gli accordi di Tonica e Dominante, una seconda più complessa, che fa uso della tecnica pizzicata e di una successione accordale più ampia. La melodia vocale attacca in levare sul quinto grado per portarsi successivamente sulla tonica.

Il canto a distesa Sunètte o Leccesèdde si svolge in tonalità di Re minore, per poi modulare alla sua Dominante. Il suonatore fa uso di un pizzicato elaborato. L’accompagnamento diventa più regolare con l’inizio del canto, con la ripetizione costante di un modulo ritmico-melodico, fino alla successiva sezione strumentale. L’attacco della voce è anacrusico sul quarto grado.

"I SONETTI"
Sono canti accompagnati dalla chitarra battente e hanno come contenuto, temi lirici amorosi.La loro origine risale alla scuola siciliana e alla tradizione giullaresca, le cui forme si diffusero ampiamente nella poesia popolare. Nei sonetti prevale l’esecuzione di un solista che, molto spesso, è lo stesso suonatore della battente. Spesso i cantatori si alternano ingaggiando tra loro una sfida sia sul repertorio, sia sulle improvvisazioni.
Durante le serenate, che si svolgono sempre secondo una ritualità scandita ben definita, il sonetto diventa un canto corale."Purté lu sunette" vuoi dire appunto portare la serenata, secondo un rituale che durava alcune ore e, a volte, si protraeva per tutta la notte. In queste occasioni, che sottolineavano momenti importanti del ciclo della vita, la chitarra battente era accompagnata dal mandolino, e per la parte ritmica dal tamburo e dalle castagnole.

"LA TARANTELLA"
La tarantella eseguita in coppia, è una danza di corteggiamento, in cui l’uomo, incitato dal gruppo e stimolato dalla musica, invita la donna prescelta al ballo. L’uomo balla e batte le mani per scandire il tempo, ma la donna pare disinteressata alla danza. Quando l’incalzare dell’uomo diventa insostenibile, anche la donna comincia a ballare, cercando un varco per sfuggire ai suoi pressanti inviti. Inizia così la fase più drammatica della tarantella. La donna, fugge e viene raggiunta, finge di accettare l’invito del maschio a ballare ma, appena intravede uno spazio libero, tenta una nuova via di fuga; viene subito rincorsa dall’uomo che la incalza di nuovo emettendo grida di incitamento per vincere la sua resistenza. Dopo parecchi tentativi, finalmente la donna accetta l’invito e inizia così la parte conclusiva del ballo, frenetica e liberatoria.

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